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Ed ecco, per gentile concessione dell'autore, il racconto inviato che si è classificato 12° nel concorso "La scrittura non va in esilio" 2012 indetto dal Centro Astalli ed aperto a tutte le scuole medie secondarie italiane.
Posso dire che siamo davvero orgogliosi?
Racconto
di Valerio Orazi
Mia adorata madre,
se solo esistesse una parola per descrivere la gioia che ho provato nell’aprire la tua lettera, allora la userei mille volte. Non immagini l’angoscia in cui ho vissuto fino ad ora, ignorando la tua sorte e quella di mio fratello: Karim era così piccolo... Ma d’altronde sarà cresciuto molto da quando vi ho lasciati. E dovresti vedere come sono cresciuto io!! Saresti fiera di me, se solo potessi vedermi. I mille viaggi, le torture, i soprusi, gli stenti, le lacrime, la nostalgia, la disperazione, e infine il sollievo che ti ho già descritto mi hanno cambiato profondamente.
Il mio amico egiziano Jamal dice che sono un uomo che mentre sorride con la bocca piange con gli occhi, e forse ha ragione. Ho accettato ormai ogni ricordo doloroso, ma la ferita rimarrà per sempre dentro di me, come un marchio di fuoco. Non rimpiango il Rwanda, la mia patria maledetta, covo di miserabili, violenti e avidi che mi hanno costretto alla fuga solo perché su un pezzo di carta c’era scritto in rosso “Hutu”. Questo conflitto spaventoso non ha senso: arricchisce i viscidi, spezza vite e divide famiglie. O no, non è questo il paese di cui ho nostalgia. Ma mi mancate voi, la mia cultura, i prati e le foreste, insomma la mia terra, sconvolta e devastata dalla furia cieca delle persone. Ed è per questo che un giorno vorrei ritornare, per cambiare le cose, perché so che il Rwanda è questo e non la miseria da cui sono fuggito.
Qui in Italia è tutta un’altra musica. C’è libertà, c’è cultura, c’è storia, ma non c’è coscienza di tutto ciò. Non si apprezza quello che si ha, si da per scontato. Non é il paese perfetto che immaginavo; la gente qui è di due tipi: quelli che ti guardano con disprezzo, con odio o con paura, e quelli che ti guardano con finta compassione, alla disperata ricerca di una storia strappalacrime da raccontare agli amici e dimenticare in un attimo. Ma non ho bisogno né di disprezzo, né di compassione. Io vivo la mia vita e basta. E poi ci sono le brave persone, quelle che ti trattano come un essere umano, quelle che guardano gli occhi e non il colore della pelle, quelle che si sentono quasi in colpa per essere così fortunati. Proprio una di queste persone mi ha dato lavoro, un lavoro temporaneo ma legale e onesto: lavoro alle pompe di benzina, che qui sono ormai il perno centrale del continuo tran-tran quotidiano. Sì, non è molto, ma è solo per trovare un po' di soldi per voi, nell’attesa di un posto migliore. Sono riuscito a prendere in affitto un piccolissimo appartamento con Jamal, ci dividiamo le spese e così avanza qualcosa per noi. Non è male come posto, piccolo ma pulito e accogliente. Però anche questa è una sistemazione provvisoria: spero di poter avere un giorno una bella casa luminosa e spaziosa, dove potervi accogliere ogni volta che vorrete.
Sono finalmente uscito dal labirinto della burocrazia italiana: ieri, dopo un anno e mezzo vissuto da immigrato in un centro d’accoglienza, sono stato finalmente riconosciuto come profugo e ho ottenuto le preziose carte che mi permettono di rimanere legalmente qui. É stata dura, davvero... Sbattuto di qua e di là, mandato in uffici, interrogato, sale d’aspetto, lunghe file, fogli, moduli: un inferno di carta da cui non vedevo l’ora di uscire. Adesso finalmente l’attesa é finita, e posso cominciare a riprendermi la mia vita. Ero solo un ragazzo quando sono partito, ma nel lungo esodo, nella fuga per la vita, non c’è posto per i ragazzi: o diventi un uomo alla svelta, o muori. E io sono ancora vivo.
Sono sorpreso dell’inaspettata ospitalità che vi hanno offerto gli zii. Fortunatamente sono abbastanza umani da non voltare le spalle al vostro disperato grido d’aiuto, e nonostante per la nostra famiglia siano praticamente degli estranei, rimangono pur sempre parenti, e li ringrazierò sempre per aver salvato la vita a te e a Karim .
Da quello che mi hai raccontato, il trascorrere del tempo nel vostro nuovo e sperduto villaggio è tranquillo e pacifico: tienitelo stretto, perché è forse l’ultimo pezzo di quello che un tempo era il vero Rwanda. Sapendovi finalmente al sicuro, fuori da quello scempio e in buona compagnia, la mia ansia si è placata, e posso iniziare a sperare che le cose si stiano sistemando un poco alla volta, e che il puzzle stia lentamente riprendendo la forma di un’esistenza dignitosa. Vorrei poterti riabbracciare, giocare alla lotta con mio fratello, correre per i boschi, darti una mano a lavorare i campi, ritornare alla mia infanzia rubata, ma quel tempo è ormai finito e non tornerà più. Nonostante ciò, sono sicuro che un giorno, forse anche tra anni e anni, i nostri occhi potranno finalmente incontrarsi, le nostre mani sfiorarsi, e quello sarà il giorno in cui un figlio lontano ritroverà finalmente l’affetto della madre. É con questa speranza, anzi certezza, che ti saluto dal più profondo del mio cuore, che seppure indurito e ferito, si sta lentamente rimarginando. Porta i miei saluti agli zii, ringraziali ogni giorno per il loro aiuto, e posa delicatamente un bacio sulla fronte del mio fratellino, perché questo è quello che farei io se fossi lì. Allego alla lettera quel poco di soldi che posso inviarti senza finire per strada, sperando che vi aiutino un po’.
Un abbraccio forte e vero, che spero ti rallegrerà. Aspetto con ansia vostre notizie...
Tuo figlio, Ahmed
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