lunedì 18 gennaio 2021

Invito alla lettura - L'architettrice



La balena

La cosa era grigio polvere, ricurva come una storta da alchimista: panciuta alla base, si restringeva nella parte superiore. Non misurava piú di mezzo palmo. Apparve all’improvviso sullo scrittoio di mio padre, insediata sulla pila di fogli scarabocchiati dalla sua grafia febbrile. La scambiai per un fermacarte, frantume di qualche scultura antica. Mio padre infatti, nonostante le proteste sguaiate di mia madre, aveva cominciato a raccattare ogni genere di reperti, fabbricati dagli uomini, dalla natura o dal caso: li esumava, li scambiava con altri cacciatori di tesori, talvolta li acquistava, tanto che il suo studiolo ormai somigliava piú alla bottega di un rigattiere che di un pittore.
Dentro scatolette di legno di pero conservava frammenti di ossa di martiri, alluci di divinità defunte e calcoli renali recuperati dal cognato nei pitali dei suoi pazienti: li ammucchiava sulle scansie tra libri squinternati in ebraico e latino, tavole con anatomie di cadaveri dissezionati, e perfino, accuratamente sigillati in una boccia di cristallo, peli di ytzquinteporzotli e xoloitzcuintli, cioè di cane e lupo messicano. Quel locale sempre in penombra, che sapeva di colla, legno bruciato e carta vecchia, il mondo di mio padre quando non era mio padre, esercitava su di me la forza d’attrazione irresistibile di una calamita su una scheggia di metallo.
Mio padre pretendeva di non essere disturbato, ma non si chiudeva mai col catenaccio, perché forse in fondo lo divertiva vedermi curiosare tra le sue meraviglie. Mia sorella Albina non provava nessun interesse per i suoi disegni e i fiori essiccati. Lui sollevava appena la testa dal foglio, e portandosi il dito alle labbra mi intimava di far silenzio. Poi intingeva la penna nell’inchiostro e si dimenticava di me. Appollaiata sullo sgabello coi piedi che mulinavano nell’aria, lo guardavo scrivere, scrivere, scrivere. Chissà che. A quel tempo sapevo appena sillabare. E non capivo perché mai un pittore dovesse usare cosí spesso la penna.
La cosa però non era il pezzo di una scultura, e nemmeno un sasso. Emanava un odore penetrante di mare e di marcio, come fosse stata, e in parte fosse ancora, qualcosa di vivo. Era febbraio, il freddo costringeva a tener chiuse le impannate, e il puzzo divenne rapidamente cosí acuto da dare il voltastomaco. Il primo giorno mia madre, disgustata, gli ordinò di far sparire subito quella fetenzia. Mio padre la fulminò con un’occhiata di compatimento. Taci, femmina stolta, bofonchiò, tu non sai di che cianci. La «fetenzia» è piú preziosa di tutto quello che c’è qua dentro, la ammoní. Quanto vale? si rianimò mia madre, allungando la mano. Mio padre gliela schiaffeggiò scherzosamente. Ci sono cose troppo rare, che non hanno prezzo, manco per mille scudi la venderei, affermò. Per mille scudi mi venderei volentieri mio marito, rise mia madre, ammiccando a me, ma purtroppo l’uomo mio non vale cosí tanto. Però poi aggiunse, con sorprendente tenerezza, Giovanni, falla sparire che appesta l’aria, non vorrei contagiasse qualche malattia ai bambini.
La cosa non sparí. Si limitò a diffondere in ogni angolo dell’appartamento una fragranza di mare e di decomposizione, finché, col passare dei giorni, si inaridí – e divenne secca e inerte come un minerale.
Tuttavia non era un minerale. Non era pietra e nemmeno tufo. Somigliava all’avorio, e al corno. La superficie era spugnosa, bucherellata di pori minuscoli. Su un lato, irta di setole bianchicce che sembravano quelle del porco selvatico. Mio padre mi raccomandò di maneggiarla con attenzione, perché era un pezzo del corpo di un animale che nei nostri mari non si vede mai. Una creatura di un altro mondo. Un pesce balena.
Le sere d’inverno, quando la pioggia o il nevischio lo intrappolavano in casa, mio padre allestiva recite dell’Orlando Furioso, selezionando le storie piú avventurose di Angelica, Astolfo e Ruggiero, o di commedie all’improvviso, blaterando in veneziano, bergamasco e napoletano nella parte di Pantalone, Zanni o del capitano. Provava le scene davanti a noi – che formavamo il suo primo pubblico. Albina e io non lo abbiamo mai potuto seguire alle rappresentazioni delle commedie, nemmeno nelle case private, perché potevano andarci solo le donne sposate. Si esibiva volentieri per noi figlie. Nella nostra innocenza feroce, eravamo i suoi critici piú imparziali. Se un lazzo non riusciva a farci ridere, lo tagliava. La vera comicità, sosteneva, deve funzionare pure con gli idioti.
Ma i suoi spettacolini domestici avevano anche un altro scopo. Voleva divertirmi, scuotermi, guarirmi dal mio difetto di fabbricazione. Si era imposto questo obbligo, da nessuno richiesto, quasi per penitenza di una sua colpa. Senza causa apparente, da qualche tempo avevo cominciato a addormentarmi di schianto – scivolavo giú dalla sedia, o cascavo col viso nel piatto in uno stato di torpore e di incoscienza. Mia madre sospettava che un sortilegio m’avesse reso scema.
Ridevo, ma la mia allegria durava come un temporale d’estate. La scoperta di quel mio difetto m’aveva cambiata. Paurosa di tutto, e soprattutto di me, non osavo piú staccarmi dalle stanze familiari: poteva accadere di nuovo, e gli estranei mi avrebbero portato all’ospedale, o abbandonata chissà dove. Preferivo stare in casa, accudire la mia sorellina Antonia. Le facevo il bagnetto nel mastello, inventavo canzoncine e favole per lei. M’era venuta la smania di crescere, e diventare madre a mia volta. Ero già una piccola donna muta e obbediente. E tale sarei rimasta, se quella cosa non fosse comparsa sullo scrittoio di mio padre.
Nessuna di tutte le storie che mi ha raccontato, infatti, mi ha appassionato quanto quella della balena che una sera di febbraio del 1624 venne ad arenarsi sui sassi della costa, poco oltre Santa Severa.
Calava già il buio quando una sentinella, di guardia sulla fortezza, intravide in mare – a un miglio di distanza, verso Civitavecchia – una sagoma scura. Forse un’isola galleggiante di sfasciumi di qualche naufragio, o un’imbarcazione nemica. Pirati barbareschi che s’appropinquavano per una razzia? Diede subito l’allarme. I soldati si precipitarono sulla spiaggia. Ma non era un’isola né una barca. Nemmeno somigliava a un pesce. Era cosí grande che pensarono a un’apparizione demoniaca. Alla luce delle fiaccole, compresero che il mostro marino giaceva a poche braccia dalla riva. L’acqua era gelida. Però non fu per quello che i soldati esitarono a raggiungerlo. Temevano che il leviatano fosse ancora vivo. Alle prime luci dell’alba, un pescatore intraprendente si rimboccò le braghe alle ginocchia e s’avventurò verso la mole grigiastra, ormai inerte.
I soldati chiamarono gli ufficiali, e gli ufficiali i superiori del comando della rocca di Santa Severa. Dipendeva, come tutte le terre circostanti, dall’Ospedale di Santo Spirito. Alla luce del nuovo giorno, il mostro si rivelò una innocua balena. A memoria d’uomo, nessuna balena, prima d’allora, era mai venuta a nuotare nell’acqua del nostro mare.
Gli eruditi ricordavano una balena morta al largo della Corsica, quattro anni prima: ma in Italia mai. Questa doveva arrivare dall’oceano. Forse, inseguita da un’orca, si era inoltrata nel Mediterraneo, e fuggendo si era spinta cosí lontano che aveva smarrito la via del ritorno. Era una femmina, ed era sola. Non fu trovata traccia di balenottero.
Secondo alcuni scienziati, era molto anziana, e per questo non aveva compagni. Secondo altri, era stata abbandonata dal suo dux. La balena infatti vive in comunione con un pesce lungo e bianco, che si aggrappa al suo muso e resta sempre con lei. Sospinge nella sua bocca i pesci minuscoli di cui si nutre, allontana i pericoli, e col tocco della coda spinosa la pilota nei mari e attraverso le correnti come fosse un timone. Per questo lo chiamano dux. In cambio ne ricava cibo e protezione: durante le tempeste, la balena lo tiene al sicuro nella propria bocca. Non possono vivere l’uno senza l’altra. Se perde il suo dux, la balena non può andare avanti né tornare indietro: può solo morire.
La carcassa si era incastrata sugli scogli che punteggiavano la costa, e sui quali spesso sbattuti dalle onde si erano infranti vascelli e feluche. Misurava piú di novantuno palmi di lunghezza e cinquanta di larghezza, ed era cosí pesante che nemmeno trenta uomini riuscirono a trainarla sulla sabbia. Decisero di farla a pezzi là dove si era incagliata, arrampicandosi sul suo dorso lucente come su una collina. La pelle, grigio chiaro, era sottile e delicata come taffetà.
Nel giro di poche ore, quella spiaggia sempre deserta divenne gremita, e non bastava piú a contenere la folla. Da Roma carovane di carrozze vi conducevano scienziati, zoologi, dilettanti, preti, poeti, pittori. Alcuni volevano studiarla, altri semplicemente vederla, altri ancora disegnarla, perché restasse memoria di lei. Era un prodigio.
Ma con altrettanta avidità molti volevano possederla. I contadini e i pescatori della zona furono pagati per staccare la coda, le ali, la carne, le vertebre. I piú ingegnosi già sognavano di fabbricarci troni e sgabelli. Le aprirono la bocca coi pali e le travi. Era cosí vasta che un uomo avrebbe potuto entrarci a cavallo. Provarono anche a dipanare gli intestini, ma il cordone delle viscere era piú spesso di un uomo. La carne era rossa, come quella del bue. Lo strato di sugna sotto il dorso cosí pesante che ci vollero tre carri per trasportarlo, e l’olio che ne fu ricavato riempí nove botti e bruciò nelle lampade per un anno intero. I denti erano alti come un uomo, ma decrescevano nella gengiva come le canne dell’organo. Il piú piccolo era poco piú grande di una storta da alchimista. Ed era quello che mio padre aveva sistemato sul suo scrittoio.
Glielo aveva donato fra Luigi Bagutti, l’architetto di Santo Spirito. Viveva a pochi passi da casa nostra ed era diventato il miglior amico di mio padre: si vedevano ogni giorno per commentare le nuove fabbriche dell’Urbe. Fra Leone, il suo superiore, gli aveva procurato ossa, carne e grasso e fra Luigi li mostrò a mio padre, sapendo che era l’uomo piú curioso di Roma, affamato di novità e di conoscenza. L’oggetto che mi affascinava tanto era il dente piú piccolo di quella balena straniera.
Quella notte la sognai. Vagava sperduta tra le onde, attratta dalle luci della fortezza, ma quando si avvicinava gli scogli aguzzi del fondo le laceravano il ventre. Lanciava spruzzi d’acqua dallo sfiatatoio, alti come palazzi, ma il suo dux l’aveva abbandonata e nessuno veniva a liberarla.

Spero di avervi incuriosito. Buona lettura.

La vostra Biblioprof.

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