di Giuseppe Varone
Per un lettore serio, il senso di permanenza materiale
dell’oggetto libro è sempre stata
un’esperienza essenziale e in un mondo in cui tutta
l’esperienza si sta facendo fluida, l’immutabilità del
testo cartaceo è una certezza.
Jonathan Franzen
Crolla inesorabilmente, sotto gli occhi
ora indolenti ora importunati di tutti, la grammatica del vivente, che trova la
sua manifestazione più immediata nell’amata Città, con le sue forme, misure e
logiche interne ed esterne, giacché l’uomo coevo, e non per questo sempre moderno,
subisce o genera una virata in direzione dei cosiddetti non-luoghi, dei quali
ne è divenuto l’emblema il Centro Commerciale. Luoghi-recipiente verso i quali
li conduce, tali pellegrini senza fede e senza ragione, una bussola dallo
scolorito color sanguigna e senza punti cardinali, impressa sul parabrezza che
sempre più tende a coincidere con le cavità dell’orbita oculare, quando questa
non ha scavato fino a fondo, alla ricerca di quel che è rimasto della materia
cerebrale. Poiché la diritta via è smarrita, per altra sempre diritta e più
facile via, si va in quei contenitori, dove poter trovare le nuove piazze, le
nuove fontane e aiuole, spettri indistinti della più soverchiante e inquieta
logica del commercio. Come, per esempio, nelle stazioni ferroviarie, dal
momento che, per qualunque ragione si viaggi, sia che si abbia l’umor nero e
melanconico sia che lo si abbia color della primavera, sempre più difficile si
fa l’attesa in quei luoghi di transito, poiché faticoso se non impossibile
risulta attendere seduti e magari al caldo, per pensare, leggere, conversare, studiare
o semplicemente riposare. No, non si può, bisogna necessariamente muoversi,
camminare, anche se si è degenti, anziani o stanchi, poiché marciare consente
di guardare e prima o poi, specie se desiderosi di ristorare corpo e anima,
spendere: per una rivista, un caffè con brioche, un sandwich, ma anche un eau
de toilette o un pullover.
E se fuori non piove o non nevica, quando
fuori per intendersi è un bel restare, anche lì spesso è impossibile sedersi,
nostalgici come si è delle care vecchie panchine o dei muretti. Proprio loro, panchine
e muretti, oggetti del vissuto, accanto ad altri dal fascino e dall’utilità
inestimabili, come le cabine telefoniche, di quando le città erano il riflesso
di una civiltà in costruzione, non necessariamente perfettamente funzionante,
ma giovane e bella.
E capita che una città la si voglia anche
scoprire, ma con buona pace degli automobilisti a troppi metri ormai da terra -
Sopra Una Vettura -, dei conduttori I-Phone di autobus e degli sferzanti
motocicli, nella ormai quasi totale assenza di ciclisti, verso di essi
nostalgici non poco, al punto da volare nelle Terre Basse tutte le volte che si
può, per vederli e seguirli nel loro esempio. Bisogna fare molta attenzione,
perché mancano, e si può supporre ne verranno a mancare sempre più, i
marciapiedi. Il marciapiedi, il più grande passo
delle comunità civili e organizzate. Sono ridotti male e all’essenziale: per
questo occorre aver premura e vergogna per le migliaia di persone che affollano
le città, nel loro step sordo, tra
asfalto e sampietrini divelti, tra pozzanghere e voragini, che fanno delle
città, più che il centro del mondo, la rotta per andare al centro della terra, nel
caso in cui ci si dovesse cascare dentro.
Ma la città, ogni città, deve essere
attraversata, affinché la si possa conoscere e vivere. Eventualmente
adattandosi anche con i mezzi di trasporto pubblico: così, come seduti in una poltrona
legata a una giostra vorticosa, accomiatarsi da tutto per assistere alla grande
prosa della città, dall’omnibus scaltro e consapevole. Ma nell’attraversamento
quello che si vede è sovente cemento depositato su cemento. Dai sedili agitati
i sognatori volano con la mente, arrivano fino all’Isola di Tory e lì ritrovano
pace per i loro sensi e i loro occhi. Il cemento, sembrano dirsi, non deve
vincere. Ma non occorre necessariamente arrivare alle antiche terre ove ancora
lungo le coste riposano i Ciclopi, nei laghi profondi si risvegliano i Mostri
marini e nei recessi più umidi della terra si preserva il gusto e la qualità
del burro; sarebbe sufficiente desiderare che le città conservino ancora, come
sempre è stato, un margine, un confine come quello tra cielo e mare, affinché
all’uomo possa ancora palesarsi un orizzonte, un limite, o ancor meglio una
meta, specie se inesplorata, se non altro per tentare di raggiungerla e
oltrepassarla. Occorre che le città abbiano spazi che al grigio dei
conglomerati cementizi facciano seguire il verde dei luoghi nei quali fermarsi,
per vivere ciò che è più bello e salutare vedere, incontrare, ascoltare e
odorare. Necessario è anche che fuori di essa (città) si staglino le campagne,
laddove un tempo vi sono stati i villaggi, ossia le infanzie delle città stesse;
campagne, perché no, con abitazioni, ma integrate all’ambiente, in nome di un
rispetto che vuol dire anche economia, ecologia e quindi diritto e dovere di
viverlo senza condannarlo all’estinzione.
Il temibile e oscuro gusto (specie
italico) dell’abbandono e della rovina conduce il senso comune verso la
rinuncia al modello per eccellenza di civiltà organizzata riferibile alla
città: quella rinascimentale, concepita e realizzata a misura d’uomo ed
esportata in tutto il mondo per ogni uomo che la volesse adattare al proprio
habitat, ripensandola. Frotte di architetti dormono sonni inquieti, stanchi di
stiparsi nei palazzi disumani dell’urbe, mentre la gente comune gli ingegneri
senza progetto la stipa nelle periferie, come pure nelle campagne, essendo le
periferie nient’altro che campagna della città coperta dall’espansione di
quest’ultima. E così cambia il clima, il commercio, la qualità e il valore di
ciò che in rimanenza è commerciabile, nonché i colori, gli odori, ma
soprattutto i paesaggi e con tutto ciò lo stato d’animo degli individui, che
quando restano, rinunciano al vivere civile. Ma soprattutto rinunciano al primo
bisogno di una comunità, la felicità, poiché vivere male uccide nello spirito,
quando non nel corpo. E di quello spirito che muore tutto passa e niente
permane, ascoso e strozzato dalle ultime colate di una ingannatrice civiltà.
Il paesaggio, sia esso urbano o rurale,
deve essere osservato, interpretato e vissuto nella sua capacità di
rappresentazione dei mutamenti socio-ambientali, ma anche e soprattutto per le
sue informazioni sulle relazioni emozionali esistenti tra i luoghi e coloro che
li vivono e percorrono. Uno sguardo consapevole e critico, tale da concepire lo
spazio come riflesso di una condizione mentale, laddove ogni attraversamento
assurge a territorio dell’anima, a sfondo esistenziale, e in divenire a
contenitore di pensiero e di progetto.
Un’intelligenza del reale comporta una
politica territoriale, una trasformazione ambientale, una gestione della città
come riflesso della componente umana, quindi antropologica e culturale. Se ciò
viene meno, in quel riflesso confuso e debole, quando non ostile, occorre
recepire gl’input di una società in decadenza, non tanto e non solo nelle sue
abitudini e vessazioni, come sopra accennato, ma anche nella sua capacità di
risposta e rivalsa. In sostanza il sottosuolo, o inconscio o io intellettuale
che dir si voglia, irrompe ora indistintamente ora impetuosamente nel reale,
nel segno di una scoperta: la scoperta dell’esistenza dell’altro, dunque di
tutto ciò che quella realtà invero la trascende o più specificatamente la rende
maggiormente affascinante, coinvolgente, avvincente, giacché nella variazione
dell’angolo visuale di ciascun individuo essa viene percepita in modi e con
strumenti differenti. Ma dai tempi più remoti e così probabilmente in futuro,
la realtà da paesaggio fisico e tangibile, mosso e retto da leggi
ingegneristiche, diviene moto dell’animo e riflesso dei suoi indefiniti e
inafferrabili stati.
Ecco, perciò, che la rovinosa immagine di
una realtà in decadenza, si fa storia di una dinamica che facilmente, nonché
velocemente, si estende a tutte le storie degli uomini che a quella realtà vi
partecipano vivendone altre: le storie universali della finzione narrativa;
l’indagine sempreverde concepita con l’epos non tradotto nelle pieghe del
cemento e della stoltezza quotidiana; la tramatura senza tempo e senza limiti
di un romanzo esistito e resistente sui molteplici aspetti dell’esistente.
La realtà, verrebbe da dire, da sempre è
considerabile degna di essere vissuta quando ricolma di significato. La vita,
in ogni suo aspetto, strutturale e sovrastrutturale, quindi, è un simbolo. In
sintesi, alla stessa maniera in cui la città può essere concepita come la
sintesi delle facoltà del consorzio umano a riverbero della propria identità,
creatività e orizzonte d’attesa speso con e per l’altro da sé, così l’arte, e
in special modo la scrittura, quindi la lettura come esercizio di fruizione
della stessa, assume una missione decisiva nell’insieme dei più determinanti,
in senso sia positivo sia negativo, mutamenti sociali.
Tuttavia, alla stessa maniera in cui le
città vanno immiserendosi sotto i nostri fiacchi o furiosi occhi; mentre, insomma,
il mondo continua ad essere offeso, anziché assistere a un salvataggio nel
senso antico delle nostre fortezze, diventiamo testimoni inermi del loro più
totale declino. Certo, perché quando il giovane di oggi sarà adulto e poi
anziano domani, non solo non vi sarà più alcuna città e luogo di ritrovo a
ricordarlo, ma soprattutto nessun cartiglio, libro, rivista, album, ecc. a
ricordarne la memoria sotto forma di gesto e di pensiero. Oh, certo, oggi si
può ascoltare tutta la musica e leggere tutta la letteratura che si vuole, tra
narrativa, saggistica, cronaca quotidiana, finanche la poesia, senza possedere
niente che la trattenga; senza possedere niente che dia quella sostanza al
dialogo che si può instaurare con lo scrittore che ti parla, che ha la stessa
valenza del passeggiare in un parco, di sentire la brezza di una fontana nel
centro della città, della brina sul vetro del bus quando al mattino si va a
lavorare, della pelle morbida della donna che accarezzi con amore.
Come a dire che navigare su internet alla
ricerca dei fasti veneziani sia la stessa cosa che navigare via mare verso di
essa, per poi navigarla dall’interno, tra i suoi canali. Guardare Venezia (che
è solo per avventura Venezia), conoscerne, gustandola, la gloria e
l’architettura dall’esclusivo angolo visuale del cosiddetto “Canalazzo”,
rappresenta un’esperienza unica; quel “Canal Grande”, che è vetrina di giorni
epici per la Serenissima ,
quell’adorabile e misterica città senza strade, rorida di deliranti calle, con
le facciate degli edifici molto curati proprio in quel lato maggiormente in
vista ai visitatori di tutti i tempi provenienti via mare, con le fiancate più
povere e funzionali. Il navigatore avvista il “padrone di casa”, il Campanile,
e così Piazza San Marco e da quella veste, elegante, bizantina e superbamente
babelica, intuisce che vi è un contenuto da scoprire; e così eccolo, una volta
addentratosi, alle prese con labirintici sali e scendi tra calle e ponticelli,
o tra magnificenze e leggende tra un canale e l’altro, viaggiatore scivolato in
uno sfolgorio di rosso vermiglio, azzurre, verdi e dorate sinuosità. Così un
libro, che a partire dalla rilegatura, dalla copertina e dal titolo, altro non
è che una facciata, capace di racchiudere saperi e bellezze millenari; una
finestra, un occhio sul tempo e sul mondo, con al suo fianco nient’altro che
una fiancata senz’anima.
Sarebbe un vero peccato che venisse meno
una parte cospicua di sapere, sovente per troppo specialismo, indolenza o
altro, e allora che ben vengano gli operatori del settore a rendere
disponibile, senza danno agli amati alberi, opere di secoli lontani, opere di
scarso interesse per i molti ma di grande interesse per pochi; e soprattutto
per quanti vivono in luoghi decentrati o impediti nella deambulazione, per i più
vari motivi, straordinario e civile poter offrire loro conoscenza. Inutile
senz’altro comprare libri per il proprio soggiorno se poi non li si legge. Si
può leggere una vita intera anche un solo libro, poiché tutte le volte che lo
si legge, se è un buon libro è in grado di offrire stimoli e verità sempre differenti.
Perché? Ma perché a cambiare è colui che lo legge. Quelle che il libro contiene
sono verità universali. Possederlo, poi, vuol dire anche condividerlo. Fare in
modo che un figlio, un amico o chissà chi un giorno possa vederlo e magari
leggerlo. Una casa senza libri è una cassaforte senza denari: niente da nascondere;
nessuna autentica ricchezza da rubare. Una città senza biblioteche o senza
librerie è un contenitore senz’anima: preoccupiamoci della corsa verso i Centri
Commerciali, gli Outlet e così via dicendo, giacché, togliendo a corpi vuoti
punti di riferimento essi non sanno dove andare e scelgono, purtroppo, la rotta
in direzione della quale si muovono in molti. Ebbene, quante persone albergano
le biblioteche, reali o immortali, di carta o digitali. Sì, anche digitali,
come ve ne sono nel Nord Europa, parcheggiando la bicicletta lungo il fiume,
dopo aver preso un pallido sole per riscaldarti, connettendoti con il mondo,
andandotene a casa, poi, con un libro nella borsa.
Un libro nella borsa, magari un classico.
Cos’è un classico? Aiutandoci con il giovanile Calvino: «Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi
li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si
riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per
gustarli».
Primo assunto, che già pone una
questione: leggere nelle condizioni migliori.
E poi ancora: «I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia
quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe
della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale».
Un libro, dunque, che può diventare
memoria collettiva, tra socioletto e idioletto. Si prenda, a questo punto, un
classico: La Recherche di
Proust.
Anche Proust, al di là di qualunque
riserva per il suo mormorante scrivere in ininterrotta rammemorazione, possiede
delle potenzialità educative. Tende, cioè, laddove se ne ravviva una
predisposizione, a far capire qualcosa di più, si potrebbe dire quel quid in più, a chi si accosta alle sue
pagine, riguardo allo spessore degli inorganici oggetti abitanti i nostri
spazi, silhouette inanimate del nostro quotidiano: le nostre stoviglie, il
nostro specchio, le nostre scarpe, il nostro orologio da polso e da tavolo,
così come tutto ciò che si può osservare fuori dalla finestra o dentro un
quadro sulla parete dal colore purpureo, sulla quale si staglia una lampada
cesellata a mo’ di civetta in stile Tiffany, tra innumerevoli altri, nostri e
non solo: oggetti da contemplazione, che riempiono lo spirito se solo noi li
riempiamo di senso. Ecco dunque che il caffè nero fumante intorbida la lente
dell’occhiale ma fa guardare lontano, dove neanche un dipinto di Böcklin – e
questo lo scrivo senza pensarlo sul serio – consentirebbe di arrivare in
contemplazione.
La lettura di una pagina come quella
della Recherche proustiana ci fa
intendere come sia impossibile restare indifferenti agli oggetti che sono
intorno a noi – o dentro di noi, come la madeleine che attraversa le labbra -,
e ci lasciano indovinare come tutti, solo volendolo, siamo degli Ulisse joycianamente avvinti a una
fluente, irrefrenabile e per questo fascinosa ordinaria realtà; e che tutti,
alla maniera dell’omerico e insieme irlandese personaggio, siamo dei
viaggiatori tra gli oggetti, attraverso gli oggetti e negli oggetti. Perché?
Perché partecipiamo alle cose che abitano il nostro mondo consapevoli di non
essere meri frantumi di una quinta scenica, bensì testimoni e attori di una
scenografia caleidoscopica, raggiante e melanconica, chiamata esistenza. Nella
spettacolare e misterica ordinarietà della nostra vita, come presenze attive,
attraverso il potenziale che ci proviene dalla scrittura e dalla lettura,
quindi dal pensiero e dalla poesia, muniamo l’esistente di una
extra-ordinarietà, giacché in possesso dei sigilli, delle chiavi di lettura,
potremmo dire delle password per accedere a ciò che si trova oltre, in quel
displuvio tra realtà e finzione, tra storia e memoria: in sostanza, il nostro
vissuto.
Cosa ci insegna Proust, allora? Proust
per avventura, lo si dica, poiché alla stessa maniera potrebbero aiutarci
Manzoni, Goethe, Dostoevskij, Kafka o Fitzgerald, tra altri. Proust ci insegna,
con la sua opera, che è possibile riconoscere quanto i libri sul comodino,
quelli che amiamo, possano rendersi partecipi della nostra esistenza, quasi
alla stessa maniera di quanto possano farlo le persone, gli amici, gli animali
che tanto amiamo, i paesaggi in cui siamo soliti transitare e sostare, le opere
d’arte che adoriamo contemplare. Ma ci insegna anche e soprattutto che i libri
vanno toccati, letti e interiorizzati; gli amici incontrati e ospitati; gli
animali curati, nutriti e coccolati, proprio come le persone; i paesaggi
osservati e vissuti, camminando, correndo, pedalando, odorando, amando,
attraversandoli ed essendone nel contempo attraversati; i dipinti, le sculture
e tutti i capolavori antichi e moderni, sia un quadro di Vermeer o di Velasco,
una scultura di Canova o un’architettura di Piano, una musica di Chopin o di un
duo svedese, tutte queste vanno osservate, capite in contemplazione di
solitudine e condivisione, a nutrimento delle speranze del mondo.
Quel libro oggetto che da anni sosta
nello scaffale della Biblioteca comunale, nel soggiorno di famiglia o nella
camera del B&B – si trovi a Ferrara o a Berlino -, ritrovato
nell’inoperosità della torrida estate o nella notte di un freddo inverno, può
innescare o rinnovare in noi quel piacere o dolore già vissuto nella nostra
stanza, sul bagnasciuga, in un’aula universitaria, all’ombra di un grosso
platano, nella cabina di un rumoroso treno o chissà dove, come fosse – almeno
che non lo sia - la prima volta.
Noi non possiamo sostituirci ai demoni
del nostro destino, quindi non possiamo pretendere di sapere ciò che è e ciò
che sarà; possiamo solo essere mossi dal vento delle passioni e dalla giustezza
della nostra ragione, così come il vento per una nave assume la rotta del
proprio viaggiare. Ma non possiamo scegliere quali oggetti acquisteranno un dì
vera significanza e per questo motivo non dovremmo sbarazzarcene, poiché ogni
epifania, ogni evento non accade per un solo istante, ma ci attraversa e
permane, lasciando tracce nella memoria, nel gusto e nel carattere. Per un
suono, uno sguardo, un colore, una parola, l’uomo non tarda a mutar di spirito
e d’umore.
Un libro è come un prezioso souvenir:
quando nemmeno te lo aspetti, guardandolo, torni a viaggiare. Rileggendolo,
continui a crescere. Fino a quando questo sarà possibile vivere resterà una
ininterrotta crescita e scoperta. Se dovesse svanire in una inconsistente
nuvola, si tenterà di guardarne ancora qualcuna reale, fino a quando l’uomo non
le avrà cancellate tutte, arrivando fin sopra il cielo col suo cuore di cemento.
P.S.: E-Book sì se ciò significherà
ovviare ad abbattimenti ingiustificati di alberi, ad accumulo di carta stipata
e non utilizzata, al rimpinguarsi delle casse di case editrici che speculano
sul potere mediatico e istituzionale, e favorire la fruizione di testi
difficilmente reperibili o in fisica decadenza.
E-Book no se ciò significherà togliere i
libri dalle biblioteche, dalle stanze degli studenti, dagli scaffali delle
librerie, dei centri di riabilitazione e delle case nelle quali crescere anche
senza batterie, monitor e fili dell’elettricità, poiché leggere è naturale.
Questo post nasce da uno scambio di idee riguardo agli e-books. Ringrazio infinitamente il professor Giuseppe Varone per aver trovato il tempo per scrivere queste bellissime righe ed averle volute pubblicare. Personalmente, condivido in toto il suo pensiero. A tal proposito ricordo di leggere qui il post sul lavoro del Project Gutenberg (PG) in italiano Progetto Gutenberg (PG) che altro è rispetto alla commercializzazione del libro elettronico.