martedì 21 febbraio 2012

E-Book sì E-Book no. L’elogio della Permanenza.




di Giuseppe Varone



Per un lettore serio, il senso di permanenza materiale
dell’oggetto libro è sempre stata
un’esperienza essenziale e in un mondo in cui tutta
l’esperienza si sta facendo fluida, l’immutabilità del
testo cartaceo è una certezza.


Jonathan Franzen




Crolla inesorabilmente, sotto gli occhi ora indolenti ora importunati di tutti, la grammatica del vivente, che trova la sua manifestazione più immediata nell’amata Città, con le sue forme, misure e logiche interne ed esterne, giacché l’uomo coevo, e non per questo sempre moderno, subisce o genera una virata in direzione dei cosiddetti non-luoghi, dei quali ne è divenuto l’emblema il Centro Commerciale. Luoghi-recipiente verso i quali li conduce, tali pellegrini senza fede e senza ragione, una bussola dallo scolorito color sanguigna e senza punti cardinali, impressa sul parabrezza che sempre più tende a coincidere con le cavità dell’orbita oculare, quando questa non ha scavato fino a fondo, alla ricerca di quel che è rimasto della materia cerebrale. Poiché la diritta via è smarrita, per altra sempre diritta e più facile via, si va in quei contenitori, dove poter trovare le nuove piazze, le nuove fontane e aiuole, spettri indistinti della più soverchiante e inquieta logica del commercio. Come, per esempio, nelle stazioni ferroviarie, dal momento che, per qualunque ragione si viaggi, sia che si abbia l’umor nero e melanconico sia che lo si abbia color della primavera, sempre più difficile si fa l’attesa in quei luoghi di transito, poiché faticoso se non impossibile risulta attendere seduti e magari al caldo, per pensare, leggere, conversare, studiare o semplicemente riposare. No, non si può, bisogna necessariamente muoversi, camminare, anche se si è degenti, anziani o stanchi, poiché marciare consente di guardare e prima o poi, specie se desiderosi di ristorare corpo e anima, spendere: per una rivista, un caffè con brioche, un sandwich, ma anche un eau de toilette o un pullover.
E se fuori non piove o non nevica, quando fuori per intendersi è un bel restare, anche lì spesso è impossibile sedersi, nostalgici come si è delle care vecchie panchine o dei muretti. Proprio loro, panchine e muretti, oggetti del vissuto, accanto ad altri dal fascino e dall’utilità inestimabili, come le cabine telefoniche, di quando le città erano il riflesso di una civiltà in costruzione, non necessariamente perfettamente funzionante, ma giovane e bella.
E capita che una città la si voglia anche scoprire, ma con buona pace degli automobilisti a troppi metri ormai da terra - Sopra Una Vettura -, dei conduttori I-Phone di autobus e degli sferzanti motocicli, nella ormai quasi totale assenza di ciclisti, verso di essi nostalgici non poco, al punto da volare nelle Terre Basse tutte le volte che si può, per vederli e seguirli nel loro esempio. Bisogna fare molta attenzione, perché mancano, e si può supporre ne verranno a mancare sempre più, i marciapiedi. Il marciapiedi, il più grande passo delle comunità civili e organizzate. Sono ridotti male e all’essenziale: per questo occorre aver premura e vergogna per le migliaia di persone che affollano le città, nel loro step sordo, tra asfalto e sampietrini divelti, tra pozzanghere e voragini, che fanno delle città, più che il centro del mondo, la rotta per andare al centro della terra, nel caso in cui ci si dovesse cascare dentro.
Ma la città, ogni città, deve essere attraversata, affinché la si possa conoscere e vivere. Eventualmente adattandosi anche con i mezzi di trasporto pubblico: così, come seduti in una poltrona legata a una giostra vorticosa, accomiatarsi da tutto per assistere alla grande prosa della città, dall’omnibus scaltro e consapevole. Ma nell’attraversamento quello che si vede è sovente cemento depositato su cemento. Dai sedili agitati i sognatori volano con la mente, arrivano fino all’Isola di Tory e lì ritrovano pace per i loro sensi e i loro occhi. Il cemento, sembrano dirsi, non deve vincere. Ma non occorre necessariamente arrivare alle antiche terre ove ancora lungo le coste riposano i Ciclopi, nei laghi profondi si risvegliano i Mostri marini e nei recessi più umidi della terra si preserva il gusto e la qualità del burro; sarebbe sufficiente desiderare che le città conservino ancora, come sempre è stato, un margine, un confine come quello tra cielo e mare, affinché all’uomo possa ancora palesarsi un orizzonte, un limite, o ancor meglio una meta, specie se inesplorata, se non altro per tentare di raggiungerla e oltrepassarla. Occorre che le città abbiano spazi che al grigio dei conglomerati cementizi facciano seguire il verde dei luoghi nei quali fermarsi, per vivere ciò che è più bello e salutare vedere, incontrare, ascoltare e odorare. Necessario è anche che fuori di essa (città) si staglino le campagne, laddove un tempo vi sono stati i villaggi, ossia le infanzie delle città stesse; campagne, perché no, con abitazioni, ma integrate all’ambiente, in nome di un rispetto che vuol dire anche economia, ecologia e quindi diritto e dovere di viverlo senza condannarlo all’estinzione.
Il temibile e oscuro gusto (specie italico) dell’abbandono e della rovina conduce il senso comune verso la rinuncia al modello per eccellenza di civiltà organizzata riferibile alla città: quella rinascimentale, concepita e realizzata a misura d’uomo ed esportata in tutto il mondo per ogni uomo che la volesse adattare al proprio habitat, ripensandola. Frotte di architetti dormono sonni inquieti, stanchi di stiparsi nei palazzi disumani dell’urbe, mentre la gente comune gli ingegneri senza progetto la stipa nelle periferie, come pure nelle campagne, essendo le periferie nient’altro che campagna della città coperta dall’espansione di quest’ultima. E così cambia il clima, il commercio, la qualità e il valore di ciò che in rimanenza è commerciabile, nonché i colori, gli odori, ma soprattutto i paesaggi e con tutto ciò lo stato d’animo degli individui, che quando restano, rinunciano al vivere civile. Ma soprattutto rinunciano al primo bisogno di una comunità, la felicità, poiché vivere male uccide nello spirito, quando non nel corpo. E di quello spirito che muore tutto passa e niente permane, ascoso e strozzato dalle ultime colate di una ingannatrice civiltà.
Il paesaggio, sia esso urbano o rurale, deve essere osservato, interpretato e vissuto nella sua capacità di rappresentazione dei mutamenti socio-ambientali, ma anche e soprattutto per le sue informazioni sulle relazioni emozionali esistenti tra i luoghi e coloro che li vivono e percorrono. Uno sguardo consapevole e critico, tale da concepire lo spazio come riflesso di una condizione mentale, laddove ogni attraversamento assurge a territorio dell’anima, a sfondo esistenziale, e in divenire a contenitore di pensiero e di progetto.
Un’intelligenza del reale comporta una politica territoriale, una trasformazione ambientale, una gestione della città come riflesso della componente umana, quindi antropologica e culturale. Se ciò viene meno, in quel riflesso confuso e debole, quando non ostile, occorre recepire gl’input di una società in decadenza, non tanto e non solo nelle sue abitudini e vessazioni, come sopra accennato, ma anche nella sua capacità di risposta e rivalsa. In sostanza il sottosuolo, o inconscio o io intellettuale che dir si voglia, irrompe ora indistintamente ora impetuosamente nel reale, nel segno di una scoperta: la scoperta dell’esistenza dell’altro, dunque di tutto ciò che quella realtà invero la trascende o più specificatamente la rende maggiormente affascinante, coinvolgente, avvincente, giacché nella variazione dell’angolo visuale di ciascun individuo essa viene percepita in modi e con strumenti differenti. Ma dai tempi più remoti e così probabilmente in futuro, la realtà da paesaggio fisico e tangibile, mosso e retto da leggi ingegneristiche, diviene moto dell’animo e riflesso dei suoi indefiniti e inafferrabili stati.
Ecco, perciò, che la rovinosa immagine di una realtà in decadenza, si fa storia di una dinamica che facilmente, nonché velocemente, si estende a tutte le storie degli uomini che a quella realtà vi partecipano vivendone altre: le storie universali della finzione narrativa; l’indagine sempreverde concepita con l’epos non tradotto nelle pieghe del cemento e della stoltezza quotidiana; la tramatura senza tempo e senza limiti di un romanzo esistito e resistente sui molteplici aspetti dell’esistente.
La realtà, verrebbe da dire, da sempre è considerabile degna di essere vissuta quando ricolma di significato. La vita, in ogni suo aspetto, strutturale e sovrastrutturale, quindi, è un simbolo. In sintesi, alla stessa maniera in cui la città può essere concepita come la sintesi delle facoltà del consorzio umano a riverbero della propria identità, creatività e orizzonte d’attesa speso con e per l’altro da sé, così l’arte, e in special modo la scrittura, quindi la lettura come esercizio di fruizione della stessa, assume una missione decisiva nell’insieme dei più determinanti, in senso sia positivo sia negativo, mutamenti sociali.
Tuttavia, alla stessa maniera in cui le città vanno immiserendosi sotto i nostri fiacchi o furiosi occhi; mentre, insomma, il mondo continua ad essere offeso, anziché assistere a un salvataggio nel senso antico delle nostre fortezze, diventiamo testimoni inermi del loro più totale declino. Certo, perché quando il giovane di oggi sarà adulto e poi anziano domani, non solo non vi sarà più alcuna città e luogo di ritrovo a ricordarlo, ma soprattutto nessun cartiglio, libro, rivista, album, ecc. a ricordarne la memoria sotto forma di gesto e di pensiero. Oh, certo, oggi si può ascoltare tutta la musica e leggere tutta la letteratura che si vuole, tra narrativa, saggistica, cronaca quotidiana, finanche la poesia, senza possedere niente che la trattenga; senza possedere niente che dia quella sostanza al dialogo che si può instaurare con lo scrittore che ti parla, che ha la stessa valenza del passeggiare in un parco, di sentire la brezza di una fontana nel centro della città, della brina sul vetro del bus quando al mattino si va a lavorare, della pelle morbida della donna che accarezzi con amore.
Come a dire che navigare su internet alla ricerca dei fasti veneziani sia la stessa cosa che navigare via mare verso di essa, per poi navigarla dall’interno, tra i suoi canali. Guardare Venezia (che è solo per avventura Venezia), conoscerne, gustandola, la gloria e l’architettura dall’esclusivo angolo visuale del cosiddetto “Canalazzo”, rappresenta un’esperienza unica; quel “Canal Grande”, che è vetrina di giorni epici per la Serenissima, quell’adorabile e misterica città senza strade, rorida di deliranti calle, con le facciate degli edifici molto curati proprio in quel lato maggiormente in vista ai visitatori di tutti i tempi provenienti via mare, con le fiancate più povere e funzionali. Il navigatore avvista il “padrone di casa”, il Campanile, e così Piazza San Marco e da quella veste, elegante, bizantina e superbamente babelica, intuisce che vi è un contenuto da scoprire; e così eccolo, una volta addentratosi, alle prese con labirintici sali e scendi tra calle e ponticelli, o tra magnificenze e leggende tra un canale e l’altro, viaggiatore scivolato in uno sfolgorio di rosso vermiglio, azzurre, verdi e dorate sinuosità. Così un libro, che a partire dalla rilegatura, dalla copertina e dal titolo, altro non è che una facciata, capace di racchiudere saperi e bellezze millenari; una finestra, un occhio sul tempo e sul mondo, con al suo fianco nient’altro che una fiancata senz’anima.  
Sarebbe un vero peccato che venisse meno una parte cospicua di sapere, sovente per troppo specialismo, indolenza o altro, e allora che ben vengano gli operatori del settore a rendere disponibile, senza danno agli amati alberi, opere di secoli lontani, opere di scarso interesse per i molti ma di grande interesse per pochi; e soprattutto per quanti vivono in luoghi decentrati o impediti nella deambulazione, per i più vari motivi, straordinario e civile poter offrire loro conoscenza. Inutile senz’altro comprare libri per il proprio soggiorno se poi non li si legge. Si può leggere una vita intera anche un solo libro, poiché tutte le volte che lo si legge, se è un buon libro è in grado di offrire stimoli e verità sempre differenti. Perché? Ma perché a cambiare è colui che lo legge. Quelle che il libro contiene sono verità universali. Possederlo, poi, vuol dire anche condividerlo. Fare in modo che un figlio, un amico o chissà chi un giorno possa vederlo e magari leggerlo. Una casa senza libri è una cassaforte senza denari: niente da nascondere; nessuna autentica ricchezza da rubare. Una città senza biblioteche o senza librerie è un contenitore senz’anima: preoccupiamoci della corsa verso i Centri Commerciali, gli Outlet e così via dicendo, giacché, togliendo a corpi vuoti punti di riferimento essi non sanno dove andare e scelgono, purtroppo, la rotta in direzione della quale si muovono in molti. Ebbene, quante persone albergano le biblioteche, reali o immortali, di carta o digitali. Sì, anche digitali, come ve ne sono nel Nord Europa, parcheggiando la bicicletta lungo il fiume, dopo aver preso un pallido sole per riscaldarti, connettendoti con il mondo, andandotene a casa, poi, con un libro nella borsa.
Un libro nella borsa, magari un classico. Cos’è un classico? Aiutandoci con il giovanile Calvino: «Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli».
Primo assunto, che già pone una questione: leggere nelle condizioni migliori.
E poi ancora: «I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale».
Un libro, dunque, che può diventare memoria collettiva, tra socioletto e idioletto. Si prenda, a questo punto, un classico: La Recherche di Proust.  
Anche Proust, al di là di qualunque riserva per il suo mormorante scrivere in ininterrotta rammemorazione, possiede delle potenzialità educative. Tende, cioè, laddove se ne ravviva una predisposizione, a far capire qualcosa di più, si potrebbe dire quel quid in più, a chi si accosta alle sue pagine, riguardo allo spessore degli inorganici oggetti abitanti i nostri spazi, silhouette inanimate del nostro quotidiano: le nostre stoviglie, il nostro specchio, le nostre scarpe, il nostro orologio da polso e da tavolo, così come tutto ciò che si può osservare fuori dalla finestra o dentro un quadro sulla parete dal colore purpureo, sulla quale si staglia una lampada cesellata a mo’ di civetta in stile Tiffany, tra innumerevoli altri, nostri e non solo: oggetti da contemplazione, che riempiono lo spirito se solo noi li riempiamo di senso. Ecco dunque che il caffè nero fumante intorbida la lente dell’occhiale ma fa guardare lontano, dove neanche un dipinto di Böcklin – e questo lo scrivo senza pensarlo sul serio – consentirebbe di arrivare in contemplazione.
La lettura di una pagina come quella della Recherche proustiana ci fa intendere come sia impossibile restare indifferenti agli oggetti che sono intorno a noi – o dentro di noi, come la madeleine che attraversa le labbra -, e ci lasciano indovinare come tutti, solo volendolo, siamo degli Ulisse joycianamente avvinti a una fluente, irrefrenabile e per questo fascinosa ordinaria realtà; e che tutti, alla maniera dell’omerico e insieme irlandese personaggio, siamo dei viaggiatori tra gli oggetti, attraverso gli oggetti e negli oggetti. Perché? Perché partecipiamo alle cose che abitano il nostro mondo consapevoli di non essere meri frantumi di una quinta scenica, bensì testimoni e attori di una scenografia caleidoscopica, raggiante e melanconica, chiamata esistenza. Nella spettacolare e misterica ordinarietà della nostra vita, come presenze attive, attraverso il potenziale che ci proviene dalla scrittura e dalla lettura, quindi dal pensiero e dalla poesia, muniamo l’esistente di una extra-ordinarietà, giacché in possesso dei sigilli, delle chiavi di lettura, potremmo dire delle password per accedere a ciò che si trova oltre, in quel displuvio tra realtà e finzione, tra storia e memoria: in sostanza, il nostro vissuto. 
Cosa ci insegna Proust, allora? Proust per avventura, lo si dica, poiché alla stessa maniera potrebbero aiutarci Manzoni, Goethe, Dostoevskij, Kafka o Fitzgerald, tra altri. Proust ci insegna, con la sua opera, che è possibile riconoscere quanto i libri sul comodino, quelli che amiamo, possano rendersi partecipi della nostra esistenza, quasi alla stessa maniera di quanto possano farlo le persone, gli amici, gli animali che tanto amiamo, i paesaggi in cui siamo soliti transitare e sostare, le opere d’arte che adoriamo contemplare. Ma ci insegna anche e soprattutto che i libri vanno toccati, letti e interiorizzati; gli amici incontrati e ospitati; gli animali curati, nutriti e coccolati, proprio come le persone; i paesaggi osservati e vissuti, camminando, correndo, pedalando, odorando, amando, attraversandoli ed essendone nel contempo attraversati; i dipinti, le sculture e tutti i capolavori antichi e moderni, sia un quadro di Vermeer o di Velasco, una scultura di Canova o un’architettura di Piano, una musica di Chopin o di un duo svedese, tutte queste vanno osservate, capite in contemplazione di solitudine e condivisione, a nutrimento delle speranze del mondo.
Quel libro oggetto che da anni sosta nello scaffale della Biblioteca comunale, nel soggiorno di famiglia o nella camera del B&B – si trovi a Ferrara o a Berlino -, ritrovato nell’inoperosità della torrida estate o nella notte di un freddo inverno, può innescare o rinnovare in noi quel piacere o dolore già vissuto nella nostra stanza, sul bagnasciuga, in un’aula universitaria, all’ombra di un grosso platano, nella cabina di un rumoroso treno o chissà dove, come fosse – almeno che non lo sia - la prima volta.  
Noi non possiamo sostituirci ai demoni del nostro destino, quindi non possiamo pretendere di sapere ciò che è e ciò che sarà; possiamo solo essere mossi dal vento delle passioni e dalla giustezza della nostra ragione, così come il vento per una nave assume la rotta del proprio viaggiare. Ma non possiamo scegliere quali oggetti acquisteranno un dì vera significanza e per questo motivo non dovremmo sbarazzarcene, poiché ogni epifania, ogni evento non accade per un solo istante, ma ci attraversa e permane, lasciando tracce nella memoria, nel gusto e nel carattere. Per un suono, uno sguardo, un colore, una parola, l’uomo non tarda a mutar di spirito e d’umore.
Un libro è come un prezioso souvenir: quando nemmeno te lo aspetti, guardandolo, torni a viaggiare. Rileggendolo, continui a crescere. Fino a quando questo sarà possibile vivere resterà una ininterrotta crescita e scoperta. Se dovesse svanire in una inconsistente nuvola, si tenterà di guardarne ancora qualcuna reale, fino a quando l’uomo non le avrà cancellate tutte, arrivando fin sopra il cielo col suo cuore di cemento. 

P.S.: E-Book sì se ciò significherà ovviare ad abbattimenti ingiustificati di alberi, ad accumulo di carta stipata e non utilizzata, al rimpinguarsi delle casse di case editrici che speculano sul potere mediatico e istituzionale, e favorire la fruizione di testi difficilmente reperibili o in fisica decadenza. 
E-Book no se ciò significherà togliere i libri dalle biblioteche, dalle stanze degli studenti, dagli scaffali delle librerie, dei centri di riabilitazione e delle case nelle quali crescere anche senza batterie, monitor e fili dell’elettricità, poiché leggere è naturale. 



Questo post nasce da uno scambio di idee riguardo agli e-books. Ringrazio infinitamente il   professor Giuseppe Varone per aver trovato il tempo per scrivere queste bellissime righe ed averle volute pubblicare. 
Personalmente, condivido in toto il suo pensiero. A tal proposito ricordo di leggere qui il post sul lavoro del Project Gutenberg (PG) in italiano Progetto Gutenberg (PG)  che altro è rispetto alla commercializzazione del libro elettronico.


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